Di seguito alcune prime note sul d.P.C.M. del 8 marzo 2020 (il cui testo trovate qui), che, come previsto all’art. 5, sarebbe efficace da oggi, 8 marzo 2020.
Le disposizioni che riguardano i dipendenti sono innanzitutto quelle previste all’art. 1, punti a) e e) e all’art. 3, punto c).
In particolare, limitatamente alle aree della Lombardia e delle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia (di seguito i “Territori”):
i) art. 1, punto a): evitare ogni spostamento in entrata e uscita dai territori e all’interno degli stessi, salvo che per “comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute”.
Sebbene abbiamo a che fare con un legislatore non particolarmente raffinato sotto il profilo ortografico e grammaticale, il ricorso alla congiunzione disgiuntiva “o”, evidenzia che le tre ipotesi citate sono separate e autonome tra loro.
In sostanza, qualora ricorra anche una sola di tali ipotesi, la mobilità è consentita.
Per quanto ci riguarda, dunque, anche in assenza di una “situazione di necessità” o di “un motivo di salute”, qualora ricorrano “comprovate esigenze lavorative” il cittadino può muoversi liberamente all’interno dei Territori o in entrata o uscita dagli stessi.
E le “comprovate esigenze lavorative”, lungi dal richiedere profili di eccezionalità, straordinarietà o urgenza (assenti nella norma), consistono semplicemente in tutte le ipotesi nelle quali il prestatore di lavoro possa dimostrare (ossia “comprovare”) di essere sul percorso dalla propria abitazione al lavoro e ritorno o di essere diretto in luogo ove deve svolgere le proprie attività lavorative o di essere banalmente “al lavoro” (per esempio nel caso di chi svolge attività di vendita sul territorio, di qualunque genere, o di chi debba recarsi presso un fornitore, un cliente, o a svolgere altre attività connesse alla propria professione fuori dalla propria sede di lavoro).
E’ consigliabile però che ogni prestatore di lavoro che si trovi nella condizione sopra descritta porti con se un qualunque documento che attesti che sta svolgendo la propria attività lavorativa; sul punto, una comunicazione (anche una email) del datore di lavoro che confermi al dipendenti di doversi recare in ufficio (o sul territorio, in base alle mansioni) è consigliabile, ma anche una copia della lettera di assunzione e, se disponibile, del mansionario e una busta paga che attesti la vigenza del rapporto di lavoro possono essere sufficienti.
Purtroppo rimarrà un margine di rischio qualora si dovessero incontrare funzionari delle forze dell’ordine poco informati o afflitti dalla “sindrome del vigile” di cui al noto film interpretato da Alberto Sordi, ma riteniamo che avere sotto mano almeno uno dei documenti sopra citati possa essere sufficiente anche per convincere i funzionari più puntigliosi.
Una lettura più restrittiva della norma, oltre a essere contraria alla chiara e univoca interpretazione letterale della stessa, avrebbe il significato di bloccare qualunque attività lavorativa di qualunque genere, e non è certo questa la finalità del decreto in esame.
ii) art. 1, punto e): raccomandazione ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere, durante il periodo di efficacia del decreto, la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di congedo ordinario e di ferie, ferma la fruibilità senza accordo scritto dello smart working (art. 2, comma 1, lettera r).
A differenza della previsione di cui all’art. 1, punto a) sopra analizzata, qui non abbiamo una disposizione vincolante e perentoria, ma una mera raccomandazione, che lascia alla valutazione prudente del datore di lavoro la decisione se dare seguito o meno alla raccomandazione medesima.
In ogni caso, lungi dall’imporre il ricorso alle ferie (per i dipendenti privati) o al congedo ordinario (per il settore pubblico) l’ordinanza invita i datori di lavoro a “promuovere la fruizione da parte dei dipendenti” delle ferie.
A nostro avviso, la norma sul punto non introduce alcun vincolo di sorta, sia a carico dei datori di lavoro (che non possono imporre le ferie unilateralmente), sia a carico dei lavoratori (che non possono pretenderle unilateralmente).
Al contrario, la norma sostanzialmente introduce una raccomandazione che pare assimilabile a quella che si legge in molti contratti collettivi in merito al riconoscimento alle donne del part-time post maternità (non a caso il decreto in esame entra in vigore nel giorno della festa della donna).
Traendo ispirazione dalla previsione da ultimo citata, pare ragionevole ritenere che l’azienda possa “pretendere” o “imporre” la fruizione delle ferie ai dipendenti, salvo che questi ultimi non vi si oppongano con solide argomentazioni di natura oggettiva legate sia al lavoro che devono svolgere, sia a ragioni personali (per esempio la scarsità di giorni di ferie disponibili, circostanza in merito alla quale la soluzione è indicata al punto 2) che segue); a propria volta l’azienda potrebbe negare le ferie che i dipendenti dovessero richiedere, solo per comprovate ragioni tecnico produttive e organizzative.
A mio avviso, considerata la situazione e salvo che per posizioni essenziali al funzionamento dell’azienda, i datori di lavoro che non dispongano di ammortizzatori sociali immediatamente fruibili:
- possono disporre unilateralmente la collocazione in ferie dei dipendenti, ripeto, salvo solide eccezioni di natura personale da valutare caso per caso;
- in ogni caso, dovrebbero ragionevolmente concedere ai dipendenti che non se la sentano di andare al lavoro, la possibilità di fruire delle ferie maturate o anche di fruire di ferie “in acconto”, entro limiti di ragionevolezza.
Infine, sull’intero territorio nazionale:
iii) art. 3, lettera c), raccomandazione di limitare, ove possibile, gli spostamenti delle persone fisiche ai casi strettamente necessari.
Qui siamo in presenza di una mera raccomandazione di puro buon senso, priva, a nostro avviso, di reale efficacia vincolante in ambito lavorativo.
E’ chiaro, per fare un esempio estremo, che se una azienda con sede nei Territori fosse così folle da organizzare un meeting motivazionale in Sardegna, violerebbe questa previsione.
Ma in generale, per chi si sposti per motivi di lavoro, qui siamo in presenza semplicemente di un “invito al buon senso” comprensibile, condivisibile, ma privo di alcun effetto nell’ambito dello svolgimento della normale attività lavorativa.